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QUANTO TI COSTA DAVVERO UN PRODOTTO? TECNICHE E STRUMENTI PER DEFINIRE IL PREZZO GIUSTO

  • Writer: Dott. Caglieri Simone
    Dott. Caglieri Simone
  • Oct 9
  • 7 min read

Quando si parla di prodotti, la prima variabile che viene in mente è il prezzo di vendita, cioè la cifra che si decide di proporre al mercato. Tuttavia, per un imprenditore il vero nodo cruciale non è il prezzo in sé, ma il costo complessivo del prodotto: solo conoscendolo con precisione è possibile stabilire un prezzo che garantisca una redditività adeguata.

Il prezzo rappresenta ciò che il cliente paga. Il costo, invece, è ciò che l’azienda sostiene per realizzare, distribuire e mantenere quel prodotto. Non si tratta soltanto delle materie prime o della manodopera diretta: nel costo vanno considerati anche la logistica, le spese di gestione, l’energia, gli accessori indispensabili, la manutenzione, le imposte calcolate sulla marginalità, fino ai costi “nascosti” che nel breve periodo potrebbero sembrare marginali, ma che nel tempo incidono pesantemente sui conti.

Trascurare questi elementi porta a un rischio concreto: fissare un prezzo di vendita apparentemente competitivo ma che, in realtà, erode la marginalità o addirittura porta a vendere in perdita. Pensiamo a chi produce un articolo senza valutare correttamente i costi di assistenza post-vendita o i costi di distribuzione: il prezzo sul mercato può sembrare adeguato, ma a fine mese i margini si assottigliano drasticamente.

Determinare quanto ci costa davvero un prodotto è indispensabile, poiché solo così è possibile calcolare un prezzo di vendita coerente, che copra l’intero ciclo di vita del prodotto e assicuri la giusta redditività all’impresa.


LE TIPOLOGIE DI COSTI

 

Il prezzo di un prodotto non nasce mai per caso: è il risultato di una combinazione di fattori strategici, di mercato, comunicativi ed economici. Tuttavia, alla base di qualsiasi politica di pricing solida c’è un elemento imprescindibile: i costi.

Prima ancora di pensare al posizionamento competitivo o alla percezione del cliente, un’impresa deve avere ben chiaro quanto le costa produrre, distribuire o offrire un bene o un servizio. Solo così è possibile fissare un prezzo di vendita sostenibile, che copra le spese e generi margini adeguati. In quest’ottica, conoscere e classificare i costi è il primo passo concreto per evitare di fissare un prezzo inferiore alla soglia minima di copertura (break even point), che porterebbe inevitabilmente a perdite. Nella gestione aziendale esistono diverse categorie di costi, ognuna delle quali permette di analizzare un aspetto diverso della redditività e di prendere decisioni più consapevoli.

Una prima distinzione fondamentale è quella tra costi fissi e costi variabili. I costi fissi sono indipendenti dal volume di produzione o di vendita: restano costanti, che si produca un solo pezzo o mille. Pensiamo all’affitto di un capannone, alla rata di leasing di un macchinario o agli stipendi del personale amministrativo: questi impegni finanziari rimangono invariati anche se la produzione rallenta. Al contrario, i costi variabili cambiano in funzione della quantità prodotta o venduta: più aumentano i volumi, più i costi crescono. Rientrano in questa categoria le materie prime, gli imballaggi, le provvigioni agli agenti o l’energia elettrica consumata per alimentare i macchinari durante la produzione. Un esempio concreto: un laboratorio artigianale che produce scarpe sosterrà sempre lo stesso costo di affitto mensile (costo fisso), ma vedrà crescere i costi per la pelle, le suole e i lacci (costi variabili) man mano che aumentano le paia prodotte.

Un’altra distinzione altrettanto importante è quella tra costi diretti e costi indiretti. I costi diretti sono quelli che si possono attribuire in maniera immediata a un prodotto o servizio specifico: se quel prodotto non esistesse, quel costo non esisterebbe. Pensiamo al tessuto utilizzato per realizzare un abito su misura, al tempo del sarto che lo confeziona o al packaging personalizzato che accompagna quel modello: tutti elementi direttamente legati a quel capo. I costi indiretti, invece, sono quelli che non si riferiscono a un singolo prodotto, ma che sostengono l’attività nel suo complesso. Esempi tipici sono le bollette del laboratorio, lo stipendio dell’ufficio amministrativo o il canone di un software gestionale utilizzato da più reparti. Pur non essendo legati a un bene specifico, questi costi devono comunque essere ripartiti correttamente per comprendere quanto incide realmente ogni prodotto sul bilancio complessivo.

 

QUANTO COSTA IL MIO PRODOTTO?

 

Stabilire con precisione quanto costa produrre o offrire un bene o un servizio non è un esercizio teorico, ma un’attività essenziale per ogni imprenditore. Il prezzo di vendita, come visto, deve garantire la copertura dei costi e la creazione di un margine adeguato. Ma come si arriva a conoscere il “vero” costo unitario di un prodotto? Esistono diversi metodi, tra cui due sono i più diffusi e utilizzati in ambito gestionale: il full costing e il direct costing.

  • Il full costing (costo pieno o completo)

Il metodo del full costing considera tutti i costi aziendali, siano essi diretti o indiretti, fissi o variabili, ripartendoli proporzionalmente su ogni prodotto. L’idea alla base è che ciascun bene venduto debba “sostenere sulle proprie spalle” anche una quota dei costi generali: affitto, spese di gestione, commercialista, utenze, software, tempo amministrativo. In questo modo si ottiene una fotografia complessiva della redditività di un prodotto nel lungo periodo.

Facciamo un esempio. Supponiamo di gestire un’azienda che produce in media 500 t-shirt al mese. Ogni t-shirt ha costi diretti variabili (tessuto, stampa, confezionamento e manodopera diretta) pari a 10 €. L’impresa, nel suo complesso, sostiene anche costi fissi e indiretti di circa 5.000 € al mese (affitto, stipendi amministrativi, utenze, ecc.). Se ripartiamo questa cifra sulle 500 t-shirt prodotte, otteniamo una quota fissa di 10 € per maglietta. Il costo pieno di ogni t-shirt sarà quindi: 10 € (costi diretti variabili) + 10 € (quota di costi fissi) = 20 €.

Se il prezzo di vendita fissato è 18 €, il risultato apparente sarà una perdita di –2 € per unità. Questo dato, secondo la logica del full costing, ci mostra che, nel lungo periodo, un prodotto venduto a questo prezzo non contribuisce alla copertura dei costi aziendali complessivi. Non significa però che bisogna smettere immediatamente di venderlo: l’analisi serve a capire che, se tutte le vendite avessero la stessa struttura, l’impresa non riuscirebbe a mantenersi sostenibile.

Un altro aspetto da considerare è che i costi fissi possono essere ripartiti tra i diversi prodotti con metodi differenti. Di questo aspetto ci occuperemo nel prossimo paragrafo.

  • Il direct costing (costo diretto o variabile)

Il direct costing adotta un approccio più snello: tiene conto solo dei costi variabili e diretti associati a un prodotto. In pratica, considera esclusivamente le spese che esistono perché quel bene viene realizzato o venduto, e che aumentano o diminuiscono al variare della quantità prodotta. Sono quindi esclusi completamente i costi fissi (affitti, stipendi amministrativi, spese generali) e i costi indiretti (marketing, direzione, sistemi informatici).

Tornando all’esempio delle t-shirt, sappiamo che il costo diretto variabile per unità è di 10 €. Se il prezzo di vendita è 18 €, il margine operativo lordo sarà: 18 € (prezzo di vendita) – 10 € (costi variabili diretti) = 8 € di margine lordo per unità.

In questo caso non stiamo ancora considerando i costi fissi generali dell’attività, ma stiamo valutando un aspetto cruciale: ogni unità venduta contribuisce con 8 € alla copertura dei costi aziendali complessivi. Sarà poi la somma di questi margini a coprire progressivamente affitti, stipendi, utenze, marketing e tutti gli altri costi generali.

In definitiva, il full costing e il direct costing non vanno visti come metodi alternativi in concorrenza tra loro, ma come due strumenti che offrono prospettive diverse. Il primo aiuta a capire la sostenibilità complessiva dell’impresa e la redditività di ogni prodotto sul lungo periodo. Il secondo è prezioso per analizzare il contributo marginale di un singolo prodotto e prendere decisioni operative nel breve termine, ad esempio valutare se conviene accettare un ordine speciale o lanciare una promozione.


RIPARTO DEI COSTI FISSI NEL FULL COSTING

 

Uno degli aspetti più delicati del metodo del full costing riguarda il riparto dei costi fissi. Questa fase è cruciale perché una distribuzione arbitraria o imprecisa può compromettere la corretta valutazione della redditività dei singoli prodotti. Il rischio, infatti, è quello di giudicare “antieconomico” un prodotto che in realtà copre bene i costi variabili e contribuisce ai costi generali, portando così a decisioni manageriali errate.

La letteratura e la prassi aziendale propongono diversi criteri per la distribuzione dei costi fissi. Ecco i principali:

  • Ripartizione proporzionale ai volumi di produzione.

È il criterio più semplice e diffuso nelle piccole imprese: i costi fissi vengono suddivisi in base al numero di unità prodotte.

Esempio: se produci 1.000 pezzi del prodotto A e 500 pezzi del prodotto B, con costi fissi totali pari a 15.000 €, il prodotto A assorbirà 10.000 € (due terzi) e il prodotto B 5.000 € (un terzo). È un metodo pratico, ma poco accurato: non tiene conto della complessità produttiva né del diverso consumo di risorse.

  • Ripartizione in base al tempo di lavorazione.

In questo caso i costi fissi vengono attribuiti in proporzione al tempo necessario per produrre ciascun bene. Un prodotto che richiede più ore di lavoro si “carica” più costi.Esempio: il prodotto A richiede 1 ora, il prodotto B ne richiede 3. Se produci 500 pezzi di ciascuno, avrai 500 ore per A e 1.500 per B, su un totale di 2.000 ore. Con 20.000 € di costi fissi, A assorbirà 5.000 € (25%), mentre B ne assorbirà 15.000 € (75%). È un criterio più realistico, ma richiede un sistema accurato di rilevazione dei tempi.

  • Ripartizione in base al fatturato generato.

Qui la logica è che chi porta più ricavi deve contribuire maggiormente alla copertura dei costi fissi.Esempio: se il prodotto A genera 40.000 € di vendite e il prodotto B 60.000 €, con costi fissi totali pari a 10.000 €, A si vedrà attribuire 4.000 € e B 6.000 €. Il limite di questo approccio è che non riflette il reale assorbimento di risorse: un prodotto con prezzo elevato ma basso impatto operativo rischia di vedersi caricato un peso eccessivo.

  • Ripartizione per centri di costo.

È un metodo più sofisticato, utilizzato soprattutto in aziende medio-grandi. L’impresa viene suddivisa in centri di costo (es. produzione, logistica, marketing, amministrazione) e a ciascun centro si attribuiscono i costi fissi. Da lì, i costi vengono ulteriormente distribuiti ai prodotti in base all’effettivo consumo di risorse (tempo, spazio, energia, manodopera). Offre un quadro molto preciso, ma richiede sistemi di raccolta dati avanzati (gestionali o ERP) e un’organizzazione strutturata.

  • Ripartizione tramite coefficienti predeterminati.

In alcune realtà artigianali o di servizi, si utilizzano chiavi di riparto costruite ad hoc: ad esempio in base al peso del prodotto, al volume, al consumo di energia, al numero di fasi produttive o allo spazio occupato in magazzino. Questo metodo è flessibile e adattabile, ma richiede coerenza e trasparenza nella definizione delle regole.

In conclusione, non esiste un criterio “migliore in assoluto”: tutto dipende dalla dimensione dell’impresa, dal numero di prodotti e dal livello di precisione che si desidera ottenere. Per realtà con pochi articoli simili tra loro può bastare la ripartizione per volumi; se i prodotti hanno tempi di lavorazione molto diversi, meglio basarsi sulle ore impiegate; in aziende strutturate conviene puntare ai centri di costo; mentre in attività artigianali o di servizi personalizzati spesso è più efficace adottare chiavi logiche personalizzate.

 

Dott. Caglieri Simone


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